COP28 a Dubai, e già siamo nei guai

La conferenza globale sul clima nemmeno è cominciata e già le notizie non sono confortanti, BBC ha infatti scoperto che gli Emirati starebbero pensando di approfittare della conferenza (dal 30/11 al 12 dicembre 2023) per colloqui di affari (petroliferi) con i paesi del sud del mondo in arrivo a Dubai.

Naturalmente gli organizzatori negano sdegnosamente e noi vogliamo credere a loro, e ci associamo quindi a quanto afferma Papa Francesco e riportato da Avvenire “Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la Cop28 porti a un’accelerazione della transizione energetica. Questa Conferenza può essere un punto di svolta”.

Effettivamente una svolta servirebbe perché anche dal punto di vista climatico le notizie non sono affatto buone. Le emissioni di CO2 dovrebbero calare ma non lo fanno, anzi secondo le valutazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia nel 2022 hanno continuato a crescere, anche se di poco, e meno di quanto anticipato dopo il rimbalzo post Covid, raggiungendo la bellezza di 36,8 miliardi di tonnellate, ovvero 4600 kg di CO2 per abitante del pianeta, inclusi i numerosissimi neonati che hanno portato la popolazione globale a superare l’anno scorso gli 8 miliardi!

Inquietante anche l’aumento della concentrazione atmosferica di CO2, che lo scorso giugno, nella famosa stazione di misura delle Hawaii, ha toccato il nuovo record di 424 ppm (parti per milione), mentre secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale l’anidride carbonica nel 2022 ha raggiunto un livello medio che non si vedeva da almeno 3-5 milioni di anni. Peraltro la stessa fonte ci avvisa che livelli record li hanno raggiunti anche gli altri gas serra più noti, ovvero il metano e il protossido di azoto, che insieme contribuiscono per circa un terzo al riscaldamento in corso.

E proprio per contenere il riscaldamento climatico e fermarlo entro limiti sopportabili servirebbero gli accordi da stipulare in conferenza, visto che con i +1,2 gradi attuali già assistiamo a ogni sorta di disastri. Solo restando all’Italia, nel 2023, dopo mesi di preoccupante siccità, abbiamo avuto in maggio la devastante alluvione dell’Emilia-Romagna, e proprio all’inizio di questo novembre quella tragica della Toscana. Ma basta allargare lo sguardo al bacino del Mediterraneo per trovare altri gravissimi disastri in Slovenia, in Grecia e In Libia.

La situazione climatica globale rischia quindi di precipitare perché se non intervengono drastici tagli nelle emissioni le previsioni parlano di ulteriori aumenti termici oltre i +1,5 gradi (rispetto al 1850-1900), con le conseguenze immaginabili. Purtroppo questi tagli non appaiono all’orizzonte, e anche se nel mondo proseguono a ritmi molto elevati le installazioni di fonti rinnovabili e procede il passaggio ai trasporti elettrici, questi cambiamenti non hanno ancora velocità sufficienti per ridurre drasticamente l’impiego delle fonti energetiche fossili, che da sole generano i tre quarti delle emissioni umane climalteranti.

Alla COP28 quindi l’impegno di tutti gli stati dovrebbe essere quello di accelerare in ogni modo la transizione, potenziando i propri piani nazionali, che al momento appaiono decisamente carenti, come riferisce l’ufficio Unfccc di Bonn, che organizza le COP a nome dell’Onu, e che ha curato un recente rapporto preparatorio alla conferenza.

L’Italia al momento non pare animata da particolare slancio in questo senso, anzi leggiamo di continue lamentele degli industriali delle rinnovabili, che si dicono pronti a grandi investimenti nel settore, con evidenti benefici anche economici per il nostro paese, mentre le autorizzazioni non arrivano, nonostante le esortazioni, le speranze ed i sogni di Papa Francesco.

Clima, i circoli viziosi che stiamo trascurando

Il sito specializzato Inside Climate News riporta con grande evidenza un articolo recentemente pubblicato sulla rivista scientifica One Earth secondo cui l’attuale modellistica climatica trascura i reali impatti di numerosi cicli naturali di feedback positivo, che amplificano l’effetto delle emissioni umane di gas serra, rischiando così di sottovalutare la reale portata del riscaldamento climatico in corso e futuro, e soprattutto la reale portata dei provvedimenti da prendere per fermare il preoccupante fenomeno.

L’articolo in questione si intitola in effetti “Many risky feedback loops amplify the need for climate action” ovvero “Numerosi cicli retroattivi rischiosi amplificano la necessità di agire per il clima” ed è principalmente opera di due ricercatori forestali americani, William Ripple e Cristopher Wolf, in cooperazione con climatologi ed esperti di impatti climatici.

Un esempio ben noto di ciclo retroattivo amplificatore (feedback positivo) è la fusione del ghiaccio artico, che espone alla luce solare superfici sempre più ampie di mare, che a sua volta assorbe quantità crescenti di energia, riscaldandosi e amplificando ulteriormente la fusione dei ghiacci.

I ricercatori hanno preso in esame ben 41 cicli di feedback positivo (20 di tipo fisico e 21 di tipo biologico) concludendo che 27 tra essi contribuiscono al riscaldamento in corso ma non vengono del tutto tenuti in conto nella modellistica climatica, né ricevono adeguati fondi per ulteriori ricerche sui loro effetti e dimensioni.

In particolare risultano alquanto trascurati i cicli biologici che riguardano la morte delle foreste (ad esempio a causa di insetti predatori), la perdita di carbonio dai suoli coltivati, la fusione del permafrost, l’essiccazione e l’incendio delle torbiere, e la cosiddetta pompa biologica, un vasto e complesso fenomeno che conduce all’assorbimento e sequestro biofisico della CO2 da parte degli oceani.

Gli autori dell’articolo invocano infine la realizzazione di uno specifico rapporto Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) sul tema dei cicli di amplificazione climatica, che faccia il punto delle conoscenze su questa tematica critica per la tenuta del sistema climatico.

Il rischio infatti è che a nostra insaputa questi effetti si scatenino oltre un livello in cui l’umanità può ancora intervenire, innescando un inarrestabile riscaldamento globale a valanga.

Rischiare la pelle (degli altri)

Due brutte notizie italiane di questi giorni, una sulla bocca di tutti, il disastro della funivia di Stresa che ha fatto 14 morti, e una molto meno diffusa, la scoperta che migliaia di ettari agricoli nel nord italia tra piemonte lombardia emilia e veneto sono stati contaminati da fanghi tossici.

Cos’hanno in comune queste notizie così diverse tra loro? La tragedia di Stresa nel giro di poche ore ha portato alla scoperta che i freni della cabina della morte erano stati bloccati scientemente da alcune persone che ora sono agli arresti. A quanto pare i freni davano problemi e invece di risolverli prima di riaprire la funivia al pubblico, la scelta è stata quella di aggirare la questione, nella scellerata certezza che quei freni mai sarebbero serviti. E invece la fune traente si è spezzata e la cabina con i freni bloccati si è schiantata al suolo con tutto il suo carico umano.

La notizia dei fanghi sparsi su terra agricola deriva invece da un’accurata indagine poliziesca che ha dimostrato un’altra attività criminale, fatta stavolta con la certezza di produrre dei danni (come risulta da alcune registrazioni diffuse dagli inquirenti). I protagonisti sapevano di spargere veleni e tra loro commentavano ridacchiando sulle conseguenze, addirittura uno si domandava scherzosamente cosa avrebbe subito un bambino che avesse sgranocchiato una pannocchia di mais raccolta su quei campi. Non sapevano evidentemente che il mais lombardo per la stragrande maggioranza finisce in bocca agli animali d’allevamento e quindi che i veleni dai terreni contaminati possono tornare sulla tavola di tutti sotto forma di latticini o salumi.

In entrambi i casi siamo di fronte a (presunti) criminali che hanno messo a rischio la salute e la vita non propria ma di altri sconosciuti, nella certezza di farla franca, col desiderio primario di guadagnare soldi attraverso scorciatoie pericolose.

Tutto questo succede da sempre, basti ricordare l’immane tragedia del Vajont (1963, oltre 2000 morti) quando il desiderio di inaugurare la diga per vendere corrente elettrica prevalse contro ogni appello e segnalazione di rischi, ma è diventato particolarmente evidente in questi ultimi decenni il divario tra l’avidità di troppi imprenditori e la necessità sempre più urgente di difendere la salute umana e proteggere quel che resta della natura.

Una delle norme meno comprese della nostra costituzione consente sì la libertà di impresa ma la assoggetta al rispetto e alla salvaguardia del bene comune. L’articolo 41 infatti recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”

Il che significa per esempio che se la co2 minaccia il clima, e la salvaguardia del clima è indispensabile alla società, allora le aziende del settore fossile devono smettere di cercare energia fossile, come chiede l’Agenzia internazionale dell’energia, e devono abbattere le proprie emissioni, come impone alla Shell una recente sentenza della magistratura olandese.

E ci si domanda che senso abbiano i recenti accordi in Emilia Romagna tra regione Eni e Snam per continuare a estrarre produrre e commercializzare gas metano e idrogeno da metano. Anche in questo caso ci vanno di mezzo i più giovani, che rischiano di trovarsi tra trent’anni un paese inabitabile per le conseguenze di decisioni sciagurate prese oggi da chi mette a rischio sempre e solo la pelle degli altri.

L’esperimento Coronavirus

Tranquilli non è un pezzo dietrologico sulle origini del malefico virus che in questo bisestile anno 2020 sta gettando in crisi tutto il pianeta. Il coronavirus Cov19 non è opera di qualche scienziato pazzo, è solo l’ennesimo tentativo riuscito di un virus degli animali di saltare dentro un’ospite molto interessante, il mobilissimo e ubiquitario Homo sapiens.

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Aria pura in Emilia-Romagna lo scorso venerdì 28 febbraio 2020 (www.arpae,it)

Da alcune settimane in Cina e da otto giorni qui in Italia sono in corso misure straordinarie per arginare la diffusione del virus, che come tutti ormai sappiamo a memoria ha mortalità bassa ma non nulla, quasi non tocca i bambini ma può fare ammalare tutti gli altri e colpire mortalmente un segmento della popolazione che comunque conta nel mondo decine di milioni di persone, i molto vecchi e i molto malati (in particolare gli immunodepressi).

In Italia i vecchi sono moltissimi, le statistiche Istat dicono che nel 2017 nel nostro paese c’erano 13,5 milioni di residenti con più di 65 anni, di cui 700mila con più di novanta, e persino 17mila ultracentenari. Se tutte o quasi queste persone si ammalassero di coronavirus verremmo gettati in una vera e propria catastrofe umanitaria al cui confronto anche il peggiore terremoto farebbe sorridere. Ed è per questo motivo che prima in Cina e ora in Italia e in altri paesi sono state adottate misure drastiche di contenimento dei focolai, misure che purtroppo sono solo in grado di rallentare ma non impedire completamente la diffusione della particella virale cinese.

Le misure di contenimento virale stanno però producendo un effetto per i più inatteso, ovvero un gigantesco rallentamento delle attività e della mobilità nei paesi dove vengono attuate. In Cina il lavoro in molte fabbriche si è fermato, sono state spente per questo molte centrali termoelettriche (a carbone) e gli aerei non volano quasi più.

Qui a Bologna da dove scrivo assistiamo a un impressionante calma stradale, dato che da sette giorni le scuole sono chiuse e in moltissimi uffici il lavoro si è trasferito a casa con l’aiuto della rete informatica in cui tutti siamo ormai da anni avvolti. E di conseguenza sono quasi scomparse le automobili, con sostanziale beneficio di noi ciclisti urbani (salvo che le poche in circolazione costituiscono comunque un forte pericolo, come testimonia il recente tragico episodio della morte del giovanissimo Matteo Prodi in bicicletta, ad opera purtroppo di un’auto condotta da un amico di famiglia).

La scomparsa o quasi delle auto in circolazione, complice un forte aumento della ventilazione, ha favorito un netto miglioramento della qualità dell’aria in Val Padana, mentre lo spegnimento delle centrali a carbone cinesi ha fatto crollare le emissioni inquinanti a tal punto che le mappe da satellite che prima erano gialle o rosse mostrano adesso un rassicurante colore azzurro.

Le analisi indipendenti pubblicate da Lauri Myllyvirta sul sito Carbon Brief, poi riprese dal New York Times, mostrano che anche le invisibili emissioni di anidride carbonica cinesi hanno subito una potente battuta di arresto.

Ed ecco quindi l’esperimento del titolo. A causa delle misure di prevenzione epidemiologica stiamo sperimentando (e penso continueremo a farlo per mesi ancora) un anno del futuro. Quel futuro non lontano che i climatologi e gli ambientalisti invocano da decenni, nel quale il pianeta si sarà liberato dalle emissioni tossiche e climalteranti dovute alle attività umane.

Uno scenario descritto con dovizia di particolari in un libro recente (The Future We Choose: Surviving the Climate Crisis) e ripreso dal Guardian in un eccellente pezzo degli autori Christiana Figueres and Tom Rivett-Carnac. Dove a migliorare la qualità dell’aria e rallentare la corsa al riscaldamento globale non è il coronavirus ma la coscienza di cittadini imprenditori e governanti impegnati nelle sforzo enorme ma indispensabile di farla finita con le fonti energetiche fossili sostituite da fonti naturali e rinnovabili come il sole e il vento, in un mondo senza più ciminiere e scappamenti.

Un mondo di nuovo pulito.

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